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«Il Signore degli Anelli» – e le sue traduzioni

di Davide Gorga

«Addio a Lórien» – Ted Nasmith

Il mestiere del traduttore è sempre stato sottovalutato, e, a volte, frainteso. L’attuale diatriba sulle traduzioni del «Signore degli Anelli», l’una della principessa Vittoria Alliata di Villafranca (rivista da Quirino Principe e parzialmente revisionata dalla Società Tolkieniana Italiana, edita da RCS / Bompiani, d’ora innanzi denominata “Alliata/Bompiani”), l’altra, più recente, di Ottavio Fatica (rivista da Giampaolo Canzonieri, d’ora innanzi indicata come “Bompiani–Giunti”), hanno riportato d’attualità il problema, anche considerato il fatto che le precedenti traduzioni (e ritraduzioni) delle opere più note di Tolkien non avevano fatto registrate polemiche, al di là  di  qualche termine un po’ discusso ma velocemente, se non approvato, quantomeno accettato dalla maggior parte degli studiosi e dei semplici lettori. Ad esempio, per quanto riguarda «Lo Hobbit», il passaggio dalla prima traduzione, di Elena Jeronimidis Conte, a quella di Caterina Ciuferri e Paolo Paron è stato sostanzialmente ben accetto da critica e pubblico. Del pari, la prima traduzione del «Silmarillion» ad opera di Francesco Saba Sardi, in seguito rivista e per alcuni tratti ritradotta dal curatore della seconda edizione, Marco Respinti, ha conquistato il pubblico e la critica al pari della prima (se non di più) e questo al netto dei gusti e delle preferenze personali.

Andiamo quindi ad esaminare le traduzioni Alliata/Bompiani e Bompiani–Giunti alla luce di un grande interprete della letteratura inglese, Hilaire Belloc, pressoché contemporaneo di Tolkien, come lui cattolico e che come il Professore s’inserisce nella scuola di Henry Newman. Nel 1931, all’interno della sua vastissima opera, pubblicò il saggio «Sulla traduzione», breve ma folgorante per acuità e profondità, nato come lectura a Oxford.

La prima, importante, affermazione di Belloc, è che un traduttore deve ovviamente conoscere sia la lingua di origine sia quella di destinazione ma, inoltre, «deve pure possedere una sorta di lingua ombra, il fantasma di una lingua composita, che agisce come un ponte, e gli permette di passare continuamente dall’una all’altra.» Questa potrebbe sembrare un’asserzione sorprendente quando invece è ovvio che il traduttore debba saper passare istantaneamente dalla resa in lingua originale a quella in cui traduce – pena l’artificiosità, la ricerca forzosa di un traducente, che inevitabilmente si ripercuote nella traduzione, rendendola zoppicante e maldestra.

Quanto alla conoscenza delle lingue di origine e di destinazione, è ancora più esplicito: «significa molto di più del preciso significato ipotetico che si attribuisce ad ogni termine in ognuna delle due lingue; poiché non solo non vi è tale possibile esattezza di definizione, ma in una lingua la connotazione perfino di una semplice parola, che indica semplicemente un oggetto concreto, sarà diversa dalla connotazione della parola corrispondente in un’altra lingua. I suoi legami storici e sociali saranno diversi; il suo effetto sul ritmo della frase e pertanto sull’emozione prodotta sarà diverso»[i].

Esistono pertanto delle regole nell’arte della traduzione, la prima è che «la traduzione dovrebbe essere nella lingua del traduttore»[ii], la seconda, che «la lingua tradotta deve essere posseduta il più perfettamente possibile dal traduttore»[iii]; la terza, che «il traduttore deve essere libero da limitazioni meccaniche, di cui le due forme principali sono: a) la limitazione di spazio; b) la limitazione di forma»[iv].

Per quanto concerne tali affermazioni, è ovvio che da esse discende l’osservazione che «il fine di una traduzione è la produzione di un’opera in una certa lingua»[v]. Si noti: la produzione. Non la traslazione o un’imitazione dell’originale: «Se traduco La Canzone di Orlando in Inglese, il mio obiettivo è di produrre un’epica in inglese»[vi], esplicita Belloc. In altre parole, il lettore non deve avvertire di avere tra le mani una traduzione da una lingua straniera ma, al contrario, deve apprezzare un’opera che sia eccellente nella sua stessa lingua.

Un buon esempio può essere dato da Gérard de Nerval, il quale tradusse, giovanissimo, il «Faust» di Goethe, distinguendosi per il nitore espressivo, tanto che lo stesso autore gli scriverà a riguardo: «Prima di leggervi non mi ero mai così ben compreso»[vii].

Per quanto riguarda l’ultima regola, quella che pare meno ovvia al lettore, Belloc continua: «il tentativo di mantenere la misura della traduzione esattamente parallela alla misura dell’originale è fatale. Quasi sempre una traduzione dev’essere di maggior lunghezza rispetto all’originale. Non è difficile trovarne la ragione. A meno che si possa trovare un equivalente più o meno soddisfacente – e abbiamo visto quanto sia difficile – si è costretti ad espandere. In ogni termine idiomatico è piegata un’intera frase e il termine deve essere dispiegato se volessimo indicare il suo significato nella nostra lingua, quando non c’è alcun singolo termine comune, strettamente corrispondente, con cui esprimerlo»[viii].

Continua Belloc: «Per esempio, Victor Hugo soffre molto nella traduzione inglese a causa della conservazione del paragrafo breve che era naturale per la narrativa francese del suo tempo ed è sempre stato innaturale per la nostra.» Similmente, Belloc si sofferma su Michelet: «i cui ritmi aulici possono essere e sono resi puerili da una traduzione inadeguata. Così, del grandioso Canto del Girondino “Quelle était cette voix?” – “C’était la Révolution même”, non tradurrei “What was the voice?” “It was the Revolution itself”. Questo mi sembra grottesco in inglese. Preferisco “One might have said, on hearing such a voice, that one had herd the Revolution itself in song”»[ix].

È dunque indispensabile possedere la conoscenza dei costrutti linguistici propri sia della lingua di origine sia di quella di destinazione e saperli e volerli adoperare onde conservare la naturalità espressiva; ciò che avviene con tanta più evidenza in un’opera di narrativa. La loro conservazione, osserva Belloc, conduce a quella sensazione di straniamento che qualifica come grottesca – a ben ragione.

Passiamo quindi ad applicare questi concetti alla traduzione del «Signore degli Anelli» di J.R.R. Tolkien.

Prendiamo l’inizio del capitolo I del libro primo, “A long–expected party”(“Una festa a lungo attesa” – nella Alliata/Bompiani; “Una festa attesa a lungo” – nella Bompiani–Giunti):

«When Mr. Bilbo Baggins of Bag End announced that he would shortly be celebrating his eleventy–first birthday with a party of special magnificence, there was much talk and excitement in Hobbiton.
Bilbo was very rich and very peculiar, and had been the wonder of the Shire for sixty years, ever since his remarkable disappearance and unexpected return. The riches he had brought back from his travels had now become a local legend, and it was popularly believed, whatever the old folk might say, that the Hill at Bag End was full of tunnels stuffed with treasures. And if that was not enough for fame, there was also his prolonged vigour to marvel at. Time wore on but it seemed to have little effect on Mr. Baggins. At ninety he was much the same as at fifty. At ninety–nine they begun to call him well–preserved; but unchanged would have been nearer the mark. There were some that shook their heads and thought this was too much of a good thing; it seemed unfair that anyone should possess (apparently) perpetual youth as well as (reputedly) inexhaustible wealth.
‘It will have to be paid for,’ they said. ‘It isn’t natural, and trouble will come of it!’»[x].

Così nella traduzione “Alliata/Bompiani”:
«Quando il signor Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione.
Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, e il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la Collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta; a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza e allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili.
“Sono cose che dovremo scontare”, dicevano; “non è secondo natura, e ci porterà dei guai!”»[xi].

Così nella traduzione Bompiani–Giunti:

«Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunciò che presto avrebbe festeggiato il suo undicentesimo compleanno con una festa oltremodo fastosa, i commenti e i fermenti a Hobbiton si sprecarono.
Bilbo era ricchissimo e alquanto stravagante e, fin dalla straordinaria sparizione, seguita dal ritorno inaspettato, era stato per sessant’anni il prodigio della Contea. Le ricchezze riportate dai viaggi erano ormai diventate una leggenda locale e secondo la credenza popolare, inutilmente smentita dagli anziani, la collina di Casa Baggins era piena di gallerie imbottite di tesori. E se questo non bastava a dargli fama, a stupire era il vigore inesausto. Il tempo passava, ma il signor Baggins non sembrava risentirne più di tanto. A novant’anni era più o meno come a cinquanta. A novantanove iniziarono a definirlo ben conservato: con immutato ci sarebbero andati più vicino. C’era chi scuoteva la testa convinto che il troppo stroppia: non sembrava giusto che qualcuno possedesse una giovinezza (manifestamente) perpetua e al tempo stesso una ricchezza (verosimilmente) inesauribile.
“Toccherà scontarla,” dicevano. “Non è naturale e sarà fonte di guai!”»[xii].

È evidente che ci si trova a due metodi di traduzione completamente diversi. Nella traduzione Alliata/Bompiani si mira a costruire un libro in lingua italiana, così come chiarito da Belloc: «il fine di una traduzione è la produzione di un’opera in una certa lingua»[xiii]; così, «a party of special magnificence» diviene «una festa sontuosissima» e «there was much talk and excitement in Hobbiton» è tradotto con «tutta Hobbiville si mise in agitazione». La frase è piana, scorrevole e attinge a costrutti tipici dell’italiano, come i superlativi assoluti e le locuzioni idiomatiche (“si mise in agitazione”).
Nella Bompiani–Giunti invece si traduce «a party of special magnificence» con «una festa oltremodo fastosa» e «there was much talk and excitement in Hobbiton» con «i commenti e i fermenti a Hobbiton si sprecarono.» La frase tenta di ricostruire in italiano la misura inglese, parola per parola, anche ricorrendo a traducenti inusuali nella lingua di destinazione; il “fasto” (da cui l’aggettivo “fastosa”), inoltre, è connotato inevitabilmente da riverberi di nobiltà; rimanda a regge e castelli (non certo ad un’abitazione hobbit). Del pari, conservare la distinzione in due parole distinte (“talk and excitement” / «i commenti e i fermenti») produce un effetto quasi comico, dal momento che i «fermenti» hanno una connotazione alimentare: si riferiscono al latte, al vino, alla pasta (e soltanto raramente e in senso figurato sono talvolta utilizzati con riferimento a valori o istanze presenti nella società). Inoltre, tale conservazione introduce una rima interna aliena dalla musicalità dell’originale.

Come scrive Belloc, occorre prestare attenzione non solo alla connotazione di una parola ma, anche, che la stessa non abbia assunto col tempo un significato completamente diverso nella lingua di destinazione: «la più semplice parola può suggerire ingiuria, rabbia o rifiuto in una lingua e non in un’altra. Si può affermare che la parola vache significhi cow ma proprio il suono di questa vocale lunga vache ha portato al suo uso come un termine di disprezzo particolarmente violento e che suscita il riso solo a causa della sua violenza»[xiv].

La frase successiva: «Bilbo was very rich and very peculiar, and had been the wonder of the Shire for sixty years, ever since his remarkable disappearance and unexpected return,» denota differenze ancora maggiori.

Nella traduzione Alliata/Bompiani si legge: «Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea»: la traduzione è chiarissima e inequivocabile, gli aggettivi “ricco” e “bizzarro” sono resi allo stesso grado come in originale; non vi è traccia di forzatura e la costruzione della frase segue quella italiana.

Nella traduzione di Bompiani–Giunti invece si ha: «Bilbo era ricchissimo e alquanto stravagante e, fin dalla straordinaria sparizione, seguita dal ritorno inaspettato, era stato per sessant’anni il prodigio della Contea.»: la prima cosa che si nota è che i due aggettivi riferiti a Bilbo sono messi su piani diversi; Bilbo era sì “ricchissimo” ma solo “alquanto stravagante” (ossia era più ricco che stravagante), cosa che altera il senso dell’originale di Tolkien; la seconda cosa che salta inevitabilmente agli occhi è la costruzione contorta, in lingua italiana, della frase. Il traduttore ci informa che Bilbo era sparito e ricomparso e, soltanto in ultimo, ci spiega che la sua sparizione era occorsa sessant’anni prima; occorre rileggere almeno due volte la frase per comprenderla. A proposito posiamo citare ancora Belloc: «Tale confusione deve essere evitata (…) affinché (…) uno non cada, nella propria lingua, in un ordine insolito, in strani neologismi ed espressioni metaforiche la cui forza è un luogo comune per lo straniero ma una novità grottesca per noi»[xv].

La frase originale di Tolkien: «There were some that shook their heads and thought this was too much of a good thing» è poi un altro esempio della differenza fra le due traduzioni.

Nella Alliata/Bompiani si legge: «Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita»: la traduzione ancora una volta ha una chiarezza espositiva cristallina, conserva il tono medio della narrazione e ben riassume i timori degli altri hobbit con un’espressione che è tipica dell’italiano.

Nella Bompiani–Giunti, invece, la frase è resa così: «C’era chi scuoteva la testa convinto che il troppo stroppia»: qui la traduzione utilizza una frase sì idiomatica ma attinta di peso da un registro linguistico molto più basso di quello usato dal narratore, che sta sì riportando un discorso indiretto ma lo forgia secondo il tono medio del narratore onnisciente. Ancora una volta possiamo citare Belloc, che critica tanto chi abbellisce un testo quanto reputa fatale per una buona resa «l’errore opposto, di rendere ciò che era nobile nell’originale in qualcosa di vile»[xvi].

Altro esempio si ritrova peraltro già nel Prologo al «Signore degli Anelli», paragrafo 4, “Of the Finding of the Ring” (“A proposito della scoperta dell’Anello” in Alliata/Bompiani – “Il ritrovamento dell’Anello” nella Bompiani–Giunti). Qui troviamo la seguente espressione:

«His sword, Sting, Bilbo hung over his fireplace»[xvii].

Nella Alliata/Bompiani abbiamo:
«Bilbo appese la spada Pungolo sul camino»[xviii].

Nella Bompiani–Giunti invece:
«Pungiglione, la sua spada, Bilbo appese sopra il camino»[xix].

Nella traduzione Alliata/Bompiani la costruzione segue quella italiana, è perfettamente comprensibile, conserva il registro dell’originale. Al contrario, nella Bompiani–Giunti, troviamo a prima vista un’ambiguità palese, dal momento che potrebbe addirittura sembrare che sia stata la spada Pungolo ad appendere Bilbo sopra il camino! Infatti, ancora una volta, la traduzione cade “in un ordine insolito”, preponendo il complemento oggetto al soggetto ed al verbo: «Pungiglione, la sua spada, Bilbo appese», ignorando la costruzione più libera dell’inglese che non si riscontra in italiano. Casomai, sarebbe stato veramente il caso di apporre un complemento oggetto pleonastico ma chiarificatore: “Pungiglione, la sua spada, Bilbo la appese sopra il camino”. Rimane in entrambi i casi un’espressione assolutamente inelegante.

Abbiamo preso in esame l’inizio del primo capitolo del libro, esaminando frase per frase le differenze fra le traduzioni: differenze che si perpetuano per tutto il libro ed abbiamo sorvolato sul latinismo «undicentesimo»[xx] utilizzato nella Bompiani–Giunti per rendere l’originale «eleventy–­first»[xxi] (letteralmente «centodiecieunesimo»), che nella Alliata/Bompiani è tradotto semplicemente e correttamente come «centoundicesimo»[xxii] mentre «undicentesimo» è un latinismo effettuato sul calco di undecentum, che però significa novantanove, non centoundici! E così, «undicentesimo» diviene sinonimo, nella Bompiani–Giunti, di novantanovesimo, alterando il senso.

Prenderemo ora in considerazione un paragrafo tratto dal capitolo III del primo libro – “Three is company” (“In tre si è in compagnia” secondo l’Alliata/Bompiani, “Tre è il numero giusto” nella Bompiani–Giunti):

«Frodo stripped the blankets from Pippin, and rolled him over, and then walked off to the edge of the wood. Away eastward the sun was rising red out of the mists that ley thick on the world. Touched with gold and red the autumn trees seemed to be sailing rootless in a shadowy sea»[xxiii].

Così nella Alliata/Bompiani:
«Frodo tirò la coperta di dosso a Pipino, voltandolo a pancia all’aria, quindi fece quattro passi fino al margine del bosco. Lontano, a oriente, il sole rosso si levava dalla nebbia che copriva densa il paesaggio. Gli alberi autunnali, pennellati d’oro e di carminio, parevano navigare senza radici in un mare d’ombra»[xxiv].

Così nella Bompiani–Giunti:
«Frodo strappò la coperta di dosso a Pippin, ribaltandolo a pancia all’aria, e poi si avviò fino al limitare del bosco. In lontananza, a oriente, il sole si levava rosso sulla fitta coltre di nebbia stesa sul mondo. Pittati d’oro e rosso, gli alberi autunnali sembravano salpare privi di radici in un mare umbratile»[xxv].

Nella Alliata/Bompiani, per la frase «Touched with gold and red the autumn trees seemed to be sailing rootless in a shadowy sea.» troviamo applicata la formula di Belloc: “il traduttore deve essere libero da limitazioni meccaniche (…)  (dalla) limitazione di forma[xxvi]nel produrre un’opera in italiano, con la traduzione: «Gli alberi autunnali, pennellati d’oro e di carminio, parevano navigare senza radici in un mare d’ombra.» In effetti, qui ci troviamo dinanzi ad un passo dalla poeticità incantevole nell’originale, e l’espressione “d’oro e di carminio” rende perfettamente la luce del sole che illumina di rosso vivo gli alberi in autunno, in contrasto con le nebbie in cui paiono navigare privi di radici. La traduzione scorre perfettamente nella nostra lingua e rende al meglio la poeticità di Tolkien. «Questa è traduzione. Questa è proprio l’essenza dell’arte: la risurrezione di una cosa straniera in un corpo nativo; non il rivestirlo di abiti nativi ma il dargli carne ed ossa nativi»[xxvii].

Nella traduzione Bompiani–Giunti, nuovamente troviamo, citando Belloc, «l’errore opposto, di rendere ciò che era nobile nell’originale in qualcosa di vile»[xxviii]: «Pittati d’oro e rosso, gli alberi autunnali sembravano salpare privi di radici in un mare umbratile.» Ciò avviene sia con l’immissione nel testo del termine «pittati», dialettale e desueto, sia con un’incomprensibile «salpare», suggerendo un’idea di movimento ed allontanamento malinconico che appiattisce il contrasto fra il colore vivo e la nebbia sottostante. Infine, «umbratile», ha una connotazione avulsa dal contesto, essendo d’uso prettamente letterario e desueto, là dove la descrizione procede con una semplice e splendida concinnità.

Ed ancora, nel capitolo II del primo libro (intitolato “L’ombra del passato” sia in Alliata/Bompiani sia in Bompiani–Giunti) troviamo queste frasi pronunciate da Gandalf, che lamenta l’estrema difficoltà nel ricavare informazioni da Gollum:

«That is a sample of this talk. I don’t suppose you want anymore. I had weary days of it»[xxix].

Nella Alliata/Bompiani troviamo:
«Questo è un esempio della sua conversazione; non penso che tu voglia sentirne ancora. Ho penato giorni e giorni per capirlo»[xxx].

Nella Bompiani–Giunti, invece:
«Ecco un assaggio dei suoi discorsi. Dovrebbe bastarti, immagino. Me li sono sciroppati per giorni e giorni»[xxxi].

In quest’ultima, oltre a voler conservare, ancora una volta, la misura inglese, prediligendo il periodo breve anziché la struttura tipica dell’italiano (come invece ritroviamo in Alliata/Bompiani), è il terzo periodo a suscitare le maggiori perplessità: «I had weary days of it.» Ora, “weary” può significare “noioso” o, in questo caso, “spossante”. La perifrasi scelta in Alliata/Bompiani rende perfettamente questo senso di pena o logoramento.
In Bompiani–Giunti la perifrasi “me li sono sciroppati” non solo rende assai imperfettamente questa pena estenuante, significando “sopportare con fastidio” (quindi rappresentando la pena, la noia, la spossatezza di Gandalf quasi fosse un semplice fastidio) ma, ancor peggio, abbassa ingiustificatamente il tono medio della narrazione utilizzando senza motivo un registro basso.

Si considerino ora queste frasi, tratte dal II capitolo del secondo libro – “The Council of Elrond” (“Il Consiglio di Elrond” identico in Alliata/Bompiani e Bompiani–Giunti):

«I will risk no hurt to this thing: of all the works of Sauron the only fair. It is precious to me, though I buy it with great pain»[xxxii].

Così nella Alliata/Bompiani:
«Ma non sarò io a rischiare di danneggiare questo oggetto: di tutte le opere di Sauron l’unica che sia bella. Mi è caro, benché lo stia acquistando con grandi sofferenze»[xxxiii].

Così nella Bompiani–Giunti:
«Ma da parte mia non rischierò di danneggiare questa cosa: di tutte le opere di Sauron l’unica bella. È un tesoro per me, anche se la compro con grande sofferenza»[xxxiv].

Nella Alliata/Bompiani abbiamo una resa piana ed efficace della frase; chi scrive queste parole è Isildur, riferendosi all’Unico Anello, ed è chiaro che il possesso di quest’ultimo gli causi grandi sofferenze, solo sopportando le quali è in grado acquisirlo (o quantomeno così egli pensa e scrive). Per questo troviamo «benché lo stia acquistando».

Nella Bompiani–Giunti, invece, al verbo «to buy» è attribuita una connotazione differente, tale per cui la resa è incomprensibile: «anche se la compro».

«Comprare» in italiano ha il solo significato di “ottenere dietro corresponsione di denaro” e non può assumere il significato figurato di “acquisire” o “acquistare” a costo di sofferenze. Nel lettore si dipinge l’immagine, comica, di Isildur che paghi Sauron con moneta sonante per comprare il suo Anello; quasi questi sia un negoziante o un mercante.

Altro esempio di resa come minimo inefficace in italiano si trova nel capitolo V del secondo libro (“Il ponte di Khazad-dûm” sia in Alliata/Bompiani sia in Bompiani–Giunti): durante l’attraversamento di Moria, Aragorn, preoccupato per le condizioni di salute di Frodo, che ha ricevuto un possente colpo al busto, si ferma per sincerarsi delle sue condizioni e gli rivolge queste parole:

«That spear-thrust would have skewered a wild boar!»[xxxv].

In Alliata/Bompiani abbiamo la seguente traduzione:
«Quel colpo di lancia avrebbe trafitto un cinghiale selvaggio!»[xxxvi].

Mentre in Bompiani–Giunti leggiamo:
«Quel colpo di lancia avrebbe schidionato un cinghiale!»[xxxvii].

In primo luogo, possiamo notare che nella traduzione Bompiani–Giunti si perde l’enfasi del discorso di Aragorn, che parla di «wild boar», ossia di un «cinghiale selvaggio» (come in Alliata/Bompiani) mentre il semplice termine «cinghiale», privo dell’aggettivo, diminuisce considerevolmente l’aura di straordinarietà che Aragorn attribuisce all’evento, constatando che Frodo è sopravvissuto alla tremenda prova.
In secondo luogo, vale la pena soffermarsi sul termine «skewered». In inglese, effettivamente «skewer» ha il significato di «spiedo», al contempo «skewered» ha un campo semantico più ampio e può significare semplicemente «infilzato»; inoltre, «spear-thrust», ossia «colpo di lancia», chiarisce perfettamente che Frodo ha rischiato d’essere trafitto da una lancia, e non d’essere infilato su un «lungo spiedo» (tale il significato di «schidione»).
Peraltro, ancora una volta ci troviamo dinanzi all’utilizzo di un termine dialettale («schidione» è un toscanismo di uso popolare) senza alcuna motivazione.
Riassumendo, la traduzione Alliata/Bompiani coglie ed esprime perfettamente il concetto espresso da Tolkien, sia con l’utilizzo del più consono «trafitto» sia per la giusta enfasi data dall’aver conservato l’aggettivo in «cinghiale selvaggio», mantenendo lo stesso registro dell’originale.
Nella traduzione Bompiani–Giunti, invece, oltre ad una perdita dell’enfasi nelle parole di Aragorn di cui si è già scritto, si ha l’utilizzo di un termine dialettale che abbassa bruscamente il registro della narrazione e che, per di più, non tiene conto del contesto: delle parole immediatamente precedenti, per cui il colpo è stato inferto a Frodo tramite una lancia («spear»).
La resa in italiano pertanto è gravemente compromessa sotto ben tre punti di vista.

Qui possiamo pertanto legittimamente citare ancora Belloc: «se il traduttore maneggia male il proprio strumento e non è un buon scrittore nella propria lingua, allora la traduzione deve essere in tutto e per tutto cattiva (…) un uso inadeguato della lingua in cui viene fatta la traduzione è strutturale, dal momento che colpisce proprio il tessuto di un’opera e la colpisce tutta intera»[xxxviii]. La mancanza di una costruzione adeguata della frase italiana, oltre all’ignoranza dell’area semantica propria di ogni singolo termine, infatti, è ciò che più affligge la traduzione di Bompiani–Giunti, che non rinuncia a mantenere parallela la misura italiana con quella inglese, traducendo talvolta espressioni in modo pedissequo, nonché ad utilizzare traducenti inadeguati, incurante dell’effetto che ciò possa avere nella lingua di destinazione.

In conclusione

Mentre la traduzione Alliata/Bompiani, pur non esente da difetti, procede scorrevole, piacevole e con un’ottima aderenza all’originale, la Bompiani–Giunti, spregiando le regole base della traduzione, non solo tende a rivestire di abiti italiani la costruzione inglese ma, ancor più, tende a provocare uno straniamento nel lettore, con l’utilizzo di regionalismi, termini desueti, tecnicismi, con l’alterazione dei registri linguistici – tipicamente abbassati, come abbiamo visto negli esempi citati – in modo da sospendere quella che Coleridge definisce la volontaria sospensione dell’incredulità ed in tal modo far prendere al lettore le distanze dal mondo fantastico in cui la lettura lo ha immerso. Se ciò è traumatico per qualsiasi opera letteraria, lo è in misura incommensurabilmente maggiore riguardo alle opere di Tolkien, dal momento che egli, nei suoi libri, attuava esplicitamente una sub-creazione:

«ogni sub–creatore desidera in qualche misura essere un vero creatore, o spera di tracciare un disegno sulla realtà: spera che la peculiare qualità di questo Mondo Secondario (anche se non tutti i suoi particolari) siano derivanti dalla Realtà, o confluiscano in essa. Se quindi egli consegue una qualità che può ben essere sintetizzata dalla definizione da dizionario “intima consistenza della realtà”, è difficile come questo possa accadere, se l’opera non partecipa in qualche modo della realtà»[xxxix].

Estraniare il lettore, portarlo fuori da quel Mondo Secondario così accuratamente predisposto e verso il quale egli si sente naturalmente portato, è il tradimento massimo che si possa operare verso la volontà di John R. R. Tolkien.


[i] H. Belloc, Sulla traduzione, Morcelliana, Brescia 2009, p. 13

[ii] Ivi, p. 20

[iii] Ibid.

[iv] Ivi, pp. 20,21

[v] Ivi, p. 21

[vi] Ibid.

[vii] D. Gorga, «Libero Pensiero» (15/09/2014), «Nerval, il canto di Loreley» – https://www.liberopensiero.eu/15/09/2014/varie/nerval-canto-loreley/

[viii] H. Belloc, Sulla traduzione, cit., p. 32

[ix] Ivi, p. 33

[x] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, Houghton, Mifflin Harcourt, Boston 2005, p. 21

[xi] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, RCS / Bompiani, Milano 2004, p. 43

[xii] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, Firenze / Milano, 2020, p. 33

[xiii] H. Belloc, Sulla traduzione, cit., p. 21

[xiv] Ivi, p. 26

[xv] Ivi, p. 29

[xvi] Ivi, p. 45

[xvii] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, p. 13

[xviii] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 37

[xix] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, cit., p. 26

[xx] Ibid.

[xxi] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, cit., p. 21

[xxii] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 43

[xxiii] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, cit., p. 72

[xxiv] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 99

[xxv] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, cit., p. 87

[xxvi] H. Belloc, Sulla traduzione, cit., pp. 20,21

[xxvii] Ivi, p. 44

[xxviii] Ivi, p. 45

[xxix] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, cit., p. 57

[xxx] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 83

[xxxi] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, cit., p. 71

[xxxii] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, cit., p. 253

[xxxiii] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 290

[xxxiv] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, cit., p. 275

[xxxv] J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings – 50th Anniversary one–volume edition, cit., p. 327

[xxxvi] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli – illustrato da Alan Lee, cit., p. 370

[xxxvii] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Giunti / Bompiani, cit., p. 352

[xxxviii] H. Belloc, Sulla traduzione, cit., p. 23

[xxxix] J.R.R. Tolkien, Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2003, p. 227

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